Come
è stato chiarito in altri contributi, le scoperte archeologiche
degli ultimi anni e le potenzialità della biologia molecolare
permettono oggi di affrontare il problema dell’origine dei vitigni
sotto una diversa prospettiva, partendo dalla determinazione dei
rapporti genetici di parentela tra vite selvatica (Vitis
vinifera L. ssp. sylvestris) e vite domestica
(Vitis vinifera L. ssp. sativa).
Diverse sono le caratteristiche distintive tra queste due
sottospecie: la vite selvatica cresce spontaneamente nei corsi
d’acqua dei Paesi che si affacciano nel bacino del Mediterraneo ed
è una specie dioica con una rara presenza (5%) di individui
ermafroditi, mentre la vite coltivata predilige ambienti aridi ed è
caratterizzata da fiori completi capaci di autofecondarsi.
L’ermafroditismo
e, quindi, l’autofecondazione rappresentano i caratteri di maggiore
interesse agronomico che l’uomo ha selezionato per ottenere una
produzione abbondante. Questo processo di selezione (domesticazione
primaria), cioè di coltivazione della vite selvatica, sarebbe
avvenuto nella regione tra Caucaso ed Iran, a cavallo del
40°parallelo, circa 8000 anni prima di Cristo, in piena era
neolitica.
Studi
recenti evidenziano l’importanza, per la diffusione della coltura
della vite, di centri secondari di domesticazione nel resto del
bacino del Mediterraneo, dove è ben documentata proprio la presenza
di colonie di vite selvatica: ad esempio, nei fiumi e torrenti della
Sardegna è evidente la presenza di numerosi individui, di ambo i
sessi, di questa specie botanica.
Ma
quale è il rapporto delle popolazioni dell’isola con questa
specie? E quale il contributo dato alla diffusione del vino, della
coltura della vite e alla selezione dei vitigni provenienti
dall’Occidente mediterraneo e oggi diffusi in tutti gli areali
vitivinicoli del mondo?
Le
teorie tradizionali sull’origine e la diffusione della vite
ipotizzano fondamentalmente un centro di domesticazione primaria dal
quale la vite si sarebbe diffusa nel resto del mondo conosciuto.
La
vite coltivata (Vitis vinifera L., ssp sativa)
si sarebbe originata dalla vite selvatica (Vitis
vinifera L., ssp sylvestris) (Arnold, 1998).
Quest’ultima è presente in natura con esemplari maschili e
femminili (è una specie dioica); gli ermafroditi (hanno cioè un
fiore capace contemporaneamente di produrre polline e di riceverlo)
sono presenti solo in piccola percentuale. I vitigni coltivati sono
in gran parte ermafroditi.Questo garantisce, naturalmente, una
produzione maggiore e costante rispetto alle varietà selvatiche.
Infatti, i fiori delle piante selvatiche femminili, hanno necessità
di avere individui maschili nelle vicinanze, produttori di polline,
per vedere fecondati i loro fiori e quindi avere abbondante
produzione di frutti.
Pertanto,
il processo di domesticazione, cioè di scelta dei migliori vitigni
selvatici e della loro coltivazione da parte dell’uomo, è
consistito nel prendere e coltivare gli individui selvatici più
produttivi, propagando soltanto il materiale vegetale degli individui
interessanti.
L’ermafroditismo
e l’autofecondazione sono quindi i caratteri di maggiore interesse
agronomico che, fin dal neolitico, l’uomo primitivo ha selezionato
nel processo di domesticazione, poiché ciò garantiva una sicura ed
abbondante produzione.
Ricordavamo
che i più recenti studi relativi alla domesticazione della vite
tendono a porre questo avvenimento nella regione tra Caucaso ed Iran,
a cavallo del 40° parallelo dell’emisfero settentrionale, circa
8000 anni prima di Cristo (Mc Govern, 2003). La teoria classica
considera il fenomeno della domesticazione come un momento ben
preciso, localizzato nel tempo una volta per tutte. Anche se questo è
un aspetto che contrasta, in realtà, con la logica: in un’epoca in
cui le fonti alimentari erano piuttosto scarse, appare difficile
pensare che le diverse comunità umane del Mediterraneo non
conoscessero e, quindi, non utilizzassero una risorsa alimentare come
questa. E’ quindi molto più semplice pensare ad un’origine
policentrica dei vitigni coltivati. Infatti, se l’ipotesi
dell’origine monocentrica della vite, con la sua diffusione verso
ovest, fosse vera tutte le varietà di vite sarebbero imparentate fra
di loro e avrebbero un genitore (o pochi genitori) comuni.
In
realtà i risultati di diverse equipe multinazionali di ricercatori
che, utilizzando le più moderne metodologie della biologia
molecolare hanno esaminato i vitigni coltivati nelle diverse aree del
Mediterraneo e dell’Europa, confrontandoli inoltre con quelli delle
viti selvatiche delle diverse aree
(Arroyo
et al., 2006), sembrano confermare proprio l’ipotesi di un’origine
policentrica. Infatti le indagini biologico molecolari portano a
raggruppare i vitigni in tre gruppi in base alla zona di origine: il
Mediterraneo orientale (per le varietà greche e turche), il Centro
Europa (per le varietà francesi e tedesche) e il Mediterraneo
occidentale.
Da
questi dati si può supporre che se la domesticazione della vite è
un fenomeno che, da un punto di vista temporale, è avvenuto prima
nel Caucaso - ed effettivamente in quest’area sembrano aversi i
primi riscontri archeologici dell’utilizzo della vite da parte
dell’uomo – anche in altre aree del Vecchio Mondo, in diversi
periodi e ripetuti nel tempo, si sono avuti fenomeni di
domesticazione.
Ogni
vitigno è quindi il risultato di una interazione particolare tra
uomo e ambiente, nella sua accezione più ampia un vero e proprio
prodotto culturale.