giovedì 31 luglio 2025

Povertà alimentare e non solo...

 

Per il terzo anno consecutivo,  un rapporto sui numeri relativi alla povertà alimentare in Italia.
L’analisi si basa sui principali dati disponibili nel database ISTAT, a partire dall’indagine sulle condizioni di vita delle famiglie (EU-SILC), dalla FIES (la scala basata sull’esperienza dell’insicurezza alimentare) e dall’indagine sui consumi.



Nel 2023, circa l’11,8% della popolazione sopra i 16 anni ha sperimentato almeno una forma di deprivazione alimentare, secondo l’indice di Deprivazione Alimentare Materiale o Sociale (DAMS). Si tratta di circa sei milioni di persone, in aumento rispetto all’anno precedente. Tra queste, tre milioni vivono difficoltà di tipo materiale – legate all’impossibilità economica di accedere a un’alimentazione adeguata – mentre quasi due milioni si trovano in una condizione di esclusione sociale legata al cibo, ad esempio per l’impossibilità di vivere il pasto come momento di socialità e condivisione con altri. Oltre un milione di persone sperimenta entrambe le forme.

Nonostante il numero complessivo di persone formalmente a rischio di povertà sia diminuito (da 9,7 a 9,2 milioni), è aumentata la quota di chi, all’interno di questa fascia, vive anche una condizione di povertà alimentare. Ma il dato forse più significativo riguarda chi non è classificato come povero secondo le soglie ufficiali: 3,6 milioni di persone vivono comunque una condizione di deprivazione alimentare, spesso invisibile agli strumenti di intervento pubblico.

Secondo i dati FIES, che misurano l’insicurezza alimentare sulla base delle esperienze vissute dalle persone in relazione all’accesso al cibo, nel 2023 circa il 3,6% della popolazione italiana – pari a oltre 1,8 milioni di individui – ha vissuto una condizione di insicurezza alimentare moderata o grave.
L’insicurezza moderata si riferisce a situazioni in cui si è costretti a ridurre la qualità o la varietà del cibo, diminuire le quantità o saltare i pasti; quella grave implica invece l’assenza completa di cibo per uno o più giorni.
I risultati appaiono più contenuti rispetto ai dati del DAMS perché si tratta di uno strumento pensato per essere applicato in contesti molto diversi, in particolare nei Paesi dove l’insicurezza alimentare assume forme più gravi e diffuse.
Pur con questi limiti, la FIES resta uno strumento prezioso per cogliere la dimensione vissuta del fenomeno, a partire dalle esperienze quotidiane delle persone.

Questi dati confermano che la povertà alimentare non coincide semplicemente con la mancanza di risorse economiche, ma è legata a un intreccio di disuguaglianze che colpiscono la vita quotidiana: precarietà lavorativa, aumento degli affitti, rincari dei beni essenziali, figli a carico, disuguaglianze di genere, background migratorio.
Il cibo, in questo scenario, diventa spesso la prima voce su cui si risparmia, generando forme di esclusione silenziosa anche tra chi ha redditi medio-bassi.

È qui che la povertà alimentare assume forme meno visibili, fatte non necessariamente di scarsità assoluta di cibo, ma di rinunce silenziose e quotidiane. Si rinuncia alla varietà e alla qualità, alla possibilità di scegliere, di condividere un pasto, di vivere l’alimentazione come esperienza di piacere, cura e relazione.
È una condizione che investe profondamente il rapporto quotidiano con il cibo, influenzando le pratiche, le emozioni e i legami sociali. Non è solo deprivazione materiale, ma anche psicologica e relazionale, perché il cibo non è semplicemente nutrimento: è dignità.

Misurare non è solo un’operazione tecnica, ma un atto politico. Le scelte su cosa osservare, come definirlo e come rappresentarlo influenzano la comprensione del fenomeno, la lettura delle sue cause e, di conseguenza, le risposte che vengono messe in campo.
È quanto abbiamo cercato di mostrare anche nel rapporto Fragili equilibri, che esplora la povertà alimentare a partire da disuguaglianze, vissuti e dimensioni invisibili.

Di fronte a questi dati, le risposte messe in campo dalle istituzioni e dalla società civile restano ancora frammentarie. L’Italia non dispone oggi di una politica organica di contrasto alla povertà alimentare.
Gli interventi pubblici si concentrano sulle situazioni più estreme, senza affrontare le cause strutturali del fenomeno né raggiungere quelle fasce di popolazione che, pur vivendo condizioni di difficoltà, restano escluse dai canali tradizionali di sostegno.
È urgente ripensare approcci e strumenti, superare lo stigma che ancora accompagna l’accesso all’aiuto alimentare e costruire percorsi capaci di rispondere non solo al bisogno materiale, ma anche al benessere psicologico, alle relazioni sociali, alla solitudine.

Allo stesso tempo, servono politiche strutturali che agiscano sulle disuguaglianze territoriali, socio-economiche e di genere, che rafforzino i redditi, migliorino l’accessibilità al cibo sano.
In quest’ottica, il riconoscimento del diritto all’accesso universale alla mensa scolastica sarebbe un passo fondamentale per contrastare la povertà alimentare minorile.
Un diritto che ancora oggi non è garantito nel nostro ordinamento, ma che rappresenta una misura concreta e necessaria.


DOSSIER

Cianciana (AG): al via la 5° edizione della Sagra del Raccolto, dei Grani antichi, Cereali e Legumi

 



 
Dal 31 luglio al 3 agosto, Cianciana promuove i prodotti dell’agroalimentare di alta qualità del suo territorio con quattro giorni di eventi tra showcooking, talk show, degustazioni e un ricco intrattenimento serale. Attesi gli spettacoli musicali di Lello Analfino ed Enrico Nigiotti e il cabaret di Sasà Salvaggio.
 
Torna a Cianciana, più ricca e vivace che mai, la Sagra del Raccolto, dei Grani antichi, Cereali e Legumi in programma dal 31 luglio al 4 agosto nella location di Piazza Aldo Moro.

 

Si tratta della quinta edizione della manifestazione, nata con grande successo nel 2019 e sostenuta con entusiasmo dalla locale amministrazione che punta a promuovere le produzioni agroalimentari del territorio. I Grani Antichi, così come i Cereali e i Legumi siciliani, e in particolar modo quelli prodotti nell’areale agrigentino di Cianciana, sono stati oggetto negli ultimi anni di una riscoperta e valorizzazione che fa leva sullo studio dei benefici che a questi prodotti sono riconosciuti nell’ambito di un’alimentazione sana e genuina. L’uso di questi prodotti, infatti, non solo valorizza il km 0, ossia il consumo di produzioni locali di qualità, ma ha portato a riscoprire un patrimonio di cultivar per lungo tempo dimenticate e di ricette che si legano ad antiche tradizioni popolari. Così è stato possibile riscoprire e promuovere il Cece rosso di Cianciana (riconosciuto dal Ministero, con l’iscrizione P.A.T. - prodotti alimentari tradizionali), il pregiato Tartufo dei Monti Sicani, il Pistacchio della Valle del Platani e un olio pregiatissimo di varietà c.d. Pidicuddara che le aziende locali coltivano e producono.


 
L’Amministrazione, con in testa il sindaco Francesco Martorana e gli assessori all’agricoltura, Paolo Manzullo e allo Sport, Turismo e Spettacolo, Liborio Curaba, è impegnata nel valorizzare questi prodotti a fianco al Movimento Terra è Vita, presieduto da Pino D’Angelo, mettendo insieme tutte queste esperienze e affidando ogni anno alla Sagra il compito di accendere i riflettori su un territorio ricchissimo di eccellenze coinvolgendo i produttori locali e sostenendo l’iniziativa imprenditoriale.




 
Quando poi qualità e gusto incontrano i migliori chef isolani, artisti e performers in una manifestazione aperta al pubblico e gratuita, il successo è garantito. Ed è così che a Cianciana, cittadina cosmopolita dell’agrigentino che accoglie da anni scrittori, attori e personalità di tutto il mondo che l’hanno scelta per l’atmosfera tipica, la Sagra del Raccolto, dei Grani antichi, Cereali e Legumi apre le porte alla sua quinta edizione, all’insegna della continuità e della valorizzazione di un modello che piace e convince.
 
Il programma della manifestazione, condotta dalla giornalista Rosy Abruzzo, prevede l’apertura giovedì 31 luglio alle ore 21.00 con la Festa del Raccolto e la tradizionale Manciata di Ciciri e Favi, una antichissima tradizione dalle radici pagane alla quale i ciancianesi sono molto legati, un appuntamento unico nel suo genere che esalta lo spirito di accoglienza e generosità dei ciancianesi. Le origini della “Festa del Raccolto” si perdono nella notte dei tempi: rappresenta il ringraziamento dei contadini alla divinità per l’abbondanza e la bontà del raccolto. In questa serata la comunità ciancianese, grazie al lavoro della locale Pro Loco, si stringe attorno ad un festoso convivio degustando l'antico piatto di ceci, fave e frumento, buon vino e il dolce tipico del luogo, “Le Sfingi “.

 
Si prosegue venerdì 1 agosto con il riconoscimento in pubblica audizione di “Cianciana Borgo GeniusLoci De.Co.”, un percorso che mira a salvaguardare e promuovere i comuni a forte vocazione identitaria. Nel frattempo lo spettacolo musicale dei Sikanian Street Band allieterà le vie del centro storico con la sua musica travolgente. Alle 21.00, sul palco si accendono i fornelli per lo showcooking del cuciniere palermitano Salvo Terruso, in arte Il Pastaio Matto. La serata proseguirà in Salita Regina Elena con il concerto del frontman dei Tinturia, che porta sul palco il suo nuovo show, Lello Analfino Tork & Star.



 
 Sabato 2 agosto, dopo un momento di approfondimento con il convegno open air “Sicilia Agroecologica: Cuore Mediterraneo del cambiamento” con Guido Bissanti, l’area dedicata agli showcooking ospiterà lo chef marsalese, campione mondiale di cous cous a S. Vito Lo Capo per la Giuria Popolare, Francesco Bonomo che di unirà mare e terra in una ricetta inedita dal nome evocativo “Granuli di terra e di Cous Cous”. A partire dalle 23.00, lo scenario della Salita Regina Elena diventerà set dell’atteso concerto di Enrico Nigiotti, cantautore livornese che ha partecipato ad Amici, Sanremo ed XFactor, con un grande seguito tra i giovani e brani capaci di far cantare intere piazze.
 
Domenica 3 agosto alle ore 20.00 si inizia con il convegno “Il Tartufo dei Monti Sicani e la valorizzazione dei prodotti tipici locali” e si prosegue con una degustazione di prodotti tipici e lo showcooking a tema del Pastaio Matto, Salvo Terruso. A1lle 21.00 il palco di Piazza Aldo Moro ospiterà il pasticcere messinese Lillo Freni che si cimenterà nella preparazione di un dolce estivo realizzato con i prodotti cincianesi. La quattro giorni di eventi si concluderà in leggerezza ed allegria con il cabaret di Sasà Salvaggio.



 
Soddisfatta l’amministrazione per un evento che cresce negli anni e sul quale intende continuare a puntare.
Info e aggiornamenti sulla pagina Facebook Sagra Del Raccolto Dei Grani Antichi, Cereali e Legumi

lunedì 28 luglio 2025

Festival del Gattopardo a Santa Margherita Belìce XX edizione


Dall’1 al 3 agosto le serate finali del Festival del Gattopardo a Santa Margherita Belìce



I vincitori del XX “Premio Letterario Internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa” sono Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice con il libro “Operazione Gattopardo” edito da Feltrinelli


La cerimonia di conferimento il 2 agosto a Santa Margherita di Belìce con l’attrice Violante Placido, il regista Tom Shankland e l’attrice Roberta Procida (serie Netflix “Il Gattopardo”), il tenore Piero Mazzocchetti. Conducono Nino Graziano Luca e Giusi Cataldo

SANTA MARGHERITA DI BELÌCE (AGRIGENTO) – Si svolgeranno dall’1 al 3 agosto a Santa Margherita di Belìce le tre serate finali del Festival del Gattopardo, legato al XX Premio Letterario Internazionale “Giuseppe Tomasi di Lampedusa” assegnato quest’anno dalla giuria presieduta da Silvano Nigro agli scrittori Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice per il saggio “Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di destra in un successo di sinistra”. Un libro edito da Feltrinelli in occasione dei 70 anni della Casa Editrice, che sarà presente per l’occasione a Santa Margherita di Belìce e a cui si deve la pubblicazione nel 1958 del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa divenuto poi il romanzo più tradotto in tutto il mondo.
La XX edizione del Premio Letterario “Giuseppe Tomasi di Lampedusa” si svolge quest’anno sullo sfondo di altri due importanti anniversari, il centenario della nascita di Andrea Camilleri e il cinquantenario della pubblicazione di “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, con un omaggio agli editori Feltrinelli e Sellerio.
Questo il programma delle tre serate del Festival del Gattopardo
Venerdì 1° agosto la serata dedicata al Premio “L’Officina del Racconto”, che si svolgerà a partire dalle ore 21 in piazza Matteotti davanti lo storico Palazzo Filangeri di Cutò, si aprirà con la lettura dei racconti e la cerimonia di premiazione delle giovani narratrici e dei giovani narratori di diversi Comuni della Valle del Belìce, che hanno partecipato al Concorso Letterario “L’Officina del Racconto” e ai Tavoli Interattivi “Sullo stesso tavolo le nostre storie” confrontandosi su tre autori legati al territorio come Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Elsa Morante e Danilo Dolci. I giovani ai quali sarà consegnato anche un libro realizzato sulla base di foto e articoli dello storico giornale L’Ora, scritto dai suoi cronisti, dove si parla anche del terremoto del Belìce, donato dalla Biblioteca Centrale della Regione Siciliana “Alberto Bombace”, saranno premiati da una giuria composta da scrittori e studiosi; i loro racconti, pubblicati sul sito del Comune di Santa Margherita Belìce, sono stati letti e votati on line anche dal pubblico.
Subito dopo si svolgerà un vero e proprio “Processo al Gattopardo”, che alla sua uscita fu bollato da alcuni scrittori e intellettuali italiani come un romanzo reazionario prima del suo successo a livello mondiale, con il magistrato Dino Petralia che presiederà il tribunale, mentre la scrittrice Bernardina Rago sosterrà la difesa e il giornalista e presidente della Strada degli Scrittori Felice Cavallaro indosserà i panni del Pubblico Ministero. Quindi si chiuderà con lo spettacolo di Mario Incudine “La Strada degli Scrittori tra cunti e canti” dedicato ad Andrea Camilleri. La serata sarà condotta da Nino Graziano Luca.
Sabato 2 agosto sempre a partire dalle 21 in piazza Matteotti la serata di gala con la Cerimonia di conferimento del XX Premio Letterario Internazionale “Giuseppe Tomasi di Lampedusa” ad Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, con ospiti d’eccezione: l’attrice Violante Placido, che interpreterà brani tratti dall’opera di Tomasi di Lampedusa “Il Gattopardo”; il regista Tom Shankland e l’attrice Roberta Procida, protagonisti della nuova serie Netflix “Il Gattopardo”; e il tenore Piero Mazzocchetti, che offrirà un omaggio musicale. La serata sarà condotta da Nino Graziano Luca e dall’attrice e regista Giusi Cataldo che presenterà il suo ultimo cortometraggio dal titolo “Ha toccato”.
Un particolare focus del Premio sarà dedicato al tema del paesaggio, al suo valore e alle sue trasformazioni, con particolare riferimento al Giardino del Gattopardo. Dialogheranno il Prof. Giorgio Galletti, Docente della Scuola di Architettura del Paesaggio dell’Università di Firenze, già Soprintendente dei Beni Culturali di Firenze e Curatore di importanti restauri di giardini storici; Manlio Speciale, Curatore dell’Orto Botanico dell’Università di Palermo, e il Prof. Giuseppe Barbera, esperto Paesaggista, sullo sfondo delle immagini della fotografia di Margherita Bianca.
Lo scrittore Giorgio Vasta renderà omaggio all’opera “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo con l’interpretazione di alcuni passaggi. Un riconoscimento per la casa editrice Sellerio andrà allo scrittore Santo Piazzese.

Nel corso della serata sarà anche siglato un protocollo d’intesa per l’ingresso di Santa Margherita di Belìce nell’itinerario La Strada degli Scrittori e annunciato un gemellaggio tra due dimore storiche dei principi di Lampedusa: Palazzo Filangeri Cutò a Santa Margherita Belìce e la Villa del Gattopardo ai Colli di Palermo.
Domenica 3 agosto alle ore 21.00 è in programma la Serata Enogastronomica dedicata a “La Cucina del Gattopardo”, un momento prezioso di convivialità che vedrà nuovamente la collaborazione del Maestro Nicola Fiasconaro, già vincitore del Premio come eccellenza siciliana nel mondo, con il suo straordinario “Trionfo di Gola del Gattopardo”. Durante la serata una brigata di pasticcerie del territorio, formata da lady chef realizzeranno una mega “cassata siciliana” insieme a mini “trionfi di gola” da far degustare al pubblico. La tavola del Gattopardo ha ottenuto il riconoscimento di Ambasciatrice dell’Identità Territoriale. Un riconoscimento legato al percorso culturale “Borghi Genius Loci De.Co.”, che valorizza i luoghi e le tradizioni dei territori.


Nella stessa serata a partire dalle ore 20.00 sarà inaugurata anche l’Enoteca del Gattopardo all’interno del secondo Cortile del Palazzo Filangeri di Cutò, in collaborazione con l’ente Strada del Vino delle Terre Sicane, l’itinerario enogastronomico situato nei comuni di Santa Margherita di Belìce, Contessa Entellina, Menfi, Montevago, Sambuca di Sicilia e Sciacca.
Il Festival del Gattopardo, che ha ottenuto il patrocinio del Ministero Italiano della Cultura, è interamente organizzato dal Comune di Santa Margherita di Belìce, con la collaborazione scientifica e culturale dell’Istituzione “Giuseppe Tomasi di Lampedusa” presieduta dal Sindaco Gaspare Viola. La manifestazione oggi è riconosciuta tra i “Grandi Eventi” della Regione Siciliana, inserita nella Rete dei Festival Letterari 2025. A ciò si aggiunge il prestigioso riconoscimento ministeriale di “Città che legge”, conferito a Santa Margherita di Belìce dal Centro per il Libro e la Lettura del MiC.


Il Premio Letterario Internazionale G. Tomasi di Lampedusa è stato assegnato in passato a grandi scrittori e premi Nobel come Abraham B. Yehoshua, Tahar Ben Jelloun, Claudio Magris, Anita Desai, Edoardo Sanguineti, Kazuo Ishiguro, Francesco Orlando, Valeria Parrella, Amos Oz, Mario Vargas Llosa, Javier Marìas, Fleur Jaeggy, Emmanuel Carrère, Orhan Pamuk, Fernando Aramburu, Carlo Ginzburg, Guzel’ Jachina, Francesco Piccolo, Pierre Michon.

domenica 27 luglio 2025

C'era una volta la campagna

 

C'era una volta la campagna


Agroindustria contro agricoltura: lo storico Alfonso Pascale rilegge il "caso italiano" e il difficile rapporto città-campagna

  • 25 Luglio, 2025

E se l’agricoltura – intesa come rapporto diretto tra uomo e terra per poterla abitare, coltivare e farla fiorire – fosse più una questione di convivenza che non un “semplice” modo di procurarsi il cibo? Partiamo da qui, da quale sia il senso dell’agricoltura oggi nell’Italia moderna, per provare a tracciare con Alfonso Pascale, studioso e dirigente di organizzazioni professionali, una storia dell’agricoltura in Italia con l’obiettivo di disegnarne un possibile futuro.

Alfonso Pascale

Campagna: un mondo ai margini

C’è una immagine, nella lunga chiacchierata con Pascale, che dà bene l’idea di quale possa essere il valore di un mondo oggi troppo spesso relegato ai margini della modernità. «In un borgo abbandonato della riforma agraria, Taccone di Irsina, in provincia di Matera, nel “rovente” 1977 la Costituente contadina, che stava dando vita alla Confcoltivatori (oggi Cia, ndr), organizzò una manifestazione di tre giorni sul tema “occupazione giovanile e sviluppo dell’agricoltura”: parteciparono 2mila giovani che provenivano da tutta Italia, soprattutto dalle università, da quei luoghi in cui – nelle città – quegli stessi giovani aggredivano Luciano Lama e si scontravano con la polizia e con altri giovani di opinioni opposte. Quegli stessi giovani stettero lì, accampati nelle loro tende, per 3 interi giorni a discutere, a confrontarsi e a riflettere pacificamente insieme ai rappresentanti delle organizzazioni contadine su come poteva nascere una nuova agricoltura favorendo l’ingresso di giovani che provenivano da culture non legate al lavoro della terra». Mentre nelle città si sparava e si picchiava, in campagna ci si confrontava. Perché?

«Partiamo da una considerazione – inizia la sua “lezione” al tavolino di un bar romano a Tor Pignattara Alfonso Pascale –. L’agricoltura non nasce per produrre cibo: per un lungo periodo il rapporto tra numero di abitanti del pianeta, terra e quantità di cibo disponibile attraverso la caccia, la pesca e la raccolta di vegetali spontanei è stato in equilibrio. Successivamente, per migliaia di anni raccolta di frutti spontanei e coltivazione di specie addomesticate sono coesistite. E nel tempo la prima è diminuita nella misura in cui è cresciuta l’importanza dell’altra. L’agricoltura nasce come attività dell’uomo per adattare la terra e le acque a forme più civili di convivenza umana. L’uomo, a un certo punto della sua evoluzione, avverte il bisogno di fermarsi e di costruire comunità stanzialiL’agricoltura fu lo strumento che poteva accompagnare e rendere possibile quella evoluzione. Lavorare la terra per adattarla a un insediamento umano stanziale è conservare le risorse, rendere il territorio più stabile».

Un pezzo di storia che è il centro ossessivo della vita e della riflessione di uno dei più brillanti e outsider intellettuali del Novecento, Bruce Chatwin.

Cibo e agricoltura: un rapporto “recente”  

«Partendo da lì – continua Pascale – si può vedere come storicamente il rapporto tra cibo e agricoltura sia diventato sempre più importante con la modernità, con la crescita della popolazione e con la rivoluzione industriale. È a quel punto che l’agricoltura ha dovuto accrescere la propria produttività, con la meccanizzazione, la chimica e la genetica. E così si è sviluppata, da una parte, l’industria produttrice di mezzi tecnici per l’agricoltura e, dall’altra, l’industria di trasformazione dei prodotti agricoli. Se è prevalentemente l’agroalimentare, oggi, a produrre il cibo per una popolazione che ha superato gli otto miliardi di individui, resta da ragionare e riflettere sulla funzione primaria dell’agricoltura, la sua funzione culturale e sociale, cioè quella di costruire relazioni e comunità: questo tema è stato esplorato solo in minima parte».

Tecnologia e valori, agricoltura e industria

Come conciliare, però, agricoltura in quanto pratica della terra e tecnologia che è base del processo industriale e che ormai è la parte più importante nella produzione del cibo?

«Proprio in questo l’agricoltura può avere un ruolo e un senso importante di riequilibrio. La tecnologia ha un’importanza fondamentale per il settore agroalimentare e per l’insieme della società. Ma se la funzione primaria dell’agricoltura è costruire relazioni e fare comunità, l’agricoltura deve inverare e trasmettere quelle culture agricole, accumulate da millenni e che sono alla base delle nostre società, per fare in modo che lo sviluppo tecnologico abbia al centro l’uomo, la sua dignità e il suo bisogno di giustizia. Se andiamo a vedere le nostre storie individuali, tutti siamo eredi di culture agricole, che ci derivano da antenati contadini o proprietari terrieri. Il problema è come queste culture possono essere vivificate e rese utili per affrontare la contemporaneità e guardare al futuro con ragionevoli speranze».

Sembra facile parlandone al tavolino di un bar… «Ecco, purtroppo oggi manca un pensiero sull’agricoltura che andrebbe elaborato in ambito interdisciplinare con filosofi, storici, antropologi, sociologi, urbanisti e scienziati per capire come l’agricoltura può contribuire oggi a migliorare le nostre società, a difendere le nostre democrazie e le nostre libertà e a creare un mondo più giusto e sostenibile. La mancanza di questo pensiero è oggi alla base di tutte le incertezze e le contraddizioni che si vivono nel rapporto tra agricoltura e società».

La crisi di ruolo dell’agricoltura

È abbastanza straniante vedere come ormai si confonda l’agroalimentare (industria e simili) con l’agricoltura e come nella vita quotidiana ci sia sempre meno contatto tra uomo e terra… «C’è una crisi di ruolo dell’agricoltura. È questa la maggiore criticità del mondo agricolo che è rimasto in mezzo al guado».

Quale guado? E come si è aperta questa frattura tra società civile, quotidianità e agricoltura che fino a pochi decenni fa era normale e diremmo anche ovvia? «La frattura comincia a diventare profonda dagli anni Settanta del secolo scorso quando termina il grande esodo agricolo. Un esodo che ha avuto però diverse letture interpretative: quella che si è maggiormente affermata ha visto la fuga dei contadini dalle campagne verso le città come la fine dell’agricoltura e la dissoluzione della cultura agricola. Era invece l’esito naturale di un processo sociale ed economico innescato dalla Riforma agraria (che rompeva il latifondo), dagli interventi per la formazione della proprietà coltivatrice e dalle opere infrastrutturali (bonifiche e irrigazioni) realizzate dalla Cassa del Mezzogiorno. Un processo in cui l’agricoltura si è potuta modernizzare, installandosi su una proprietà più diffusa della terra che ha permesso a tanti contadini di trasformarsi in imprenditori. Un processo che portava già scritto in sé lo svuotamento delle campagne. E sarebbe stato illusorio pensare di scansare quell’evento doloroso. L’arrivo dei trattori, dei fitofarmaci e dei fertilizzanti faceva cadere la domanda di manodopera. E i piccoli fazzoletti di terra venivano ineludibilmente abbandonati. Ma senza una riduzione degli addetti non sarebbe stato possibile ottenere una crescita della produttività in agricoltura e un innalzamento dei redditi agricoli».

La rivoluzione verde e l’agricoltura moderna

Eppure l’Italia aveva il fior fiore degli studiosi e intellettuali della terra… «La Riforma agraria e l’esplosione della Rivoluzione Verde avevano portato all’agricoltura moderna, non alla fine dell’agricoltura. I massimi esponenti della cultura agronomica ed economico-agraria – da Giuseppe Medici a Manlio Rossi-Doria, da Giuseppe Orlando a Giuseppe Barbero – erano ben consapevoli che quel processo doveva essere accompagnato seriamente, ma prevalse l’interpretazione riduttiva di un’agricoltura che andava in esaurimento. E così a interrompere bruscamente quel processo fu l’idea dell’industrializzazione forzata dall’alto come panacea dei mali del Sud. La svolta “industrialista” – proposta dalla Svimez nel 1953 – venne condivisa trasversalmente da tutti i partiti e da tutti i sindacati. E nel 1957 diventò legge. Con motivazioni solo parzialmente diverse, tutti temevano il dramma dell’emigrazione di massa verso il triangolo industriale. Ma la preoccupazione non riguardava solo i forti disagi sociali indotti da quella prospettiva, bensì anche gli imprevedibili mutamenti politici. La Dc vedeva nell’insediamento dell’industria di Stato al Sud un’opportunità per garantirsi il consenso mediante le assunzioni clientelari. Mentre il Pci vedeva nella nascita di una classe operaia meridionale l’elemento decisivo per insediarsi più stabilmente tra le popolazioni».

Agricoltura lasciata in mezzo al guado

Un’occasione persa in nome di un interesse di parte, dunque? «Ci fu anche questo elemento nell’adesione alla proposta Svimez. Le voci che si levano contro quell’idea furono diverse: Olivetti, Rossi-Doria, Dolci, Ceriani-Sebregondi e Ardigò. Ma tali voci furono messe a tacere. E nel momento in cui la proposta divenne la grande scelta strategica per il Sud, si delegittimava e marginalizzava un’intera cultura economica, sociale e politica fondata sullo sviluppo endogeno e partecipativo. Veniva, in sostanza, scartata l’idea di articolare l’intervento pubblico attraverso una maturazione guidata dalla ricerca sociologica sul campo e dai processi educativi e formativi. La società è così progredita sul piano economico e sociale, ma non si è avuto un suo sviluppo effettivo ed equilibrato. È da lì che l’agricoltura rimane in mezzo al guado».

Particolarità e unicità del caso italiano

Noi stiamo parlando di Italia. Ma cosa ha di diverso questo Paese rispetto al resto dell’Europa? Perché altrove lo scenario sembra essersi evoluto diversamente… «C’è un dato che andrebbe approfondito seriamente, per capire e per pensare a un futuro. Nel 1957 l’Istat registra per la prima volta il calo degli addetti all’agricoltura sotto il 50% della forza lavoro attiva. E nel 1963 esplode quello che conosciamo come boom economico: in quei 5 anni milioni di persone si spostano dalla campagna verso le città e dal Sud al Nord. Si trattò di un processo che negli altri Paesi europei (penso all’Inghilterra e poi a Francia e Germania) si è diluito in oltre un secolo mentre in Italia avviene in pochi anni».

«La trasformazione dell’Italia da Paese prevalentemente agricolo a Paese prevalentemente industriale non ha dato luogo a fenomeni di sradicamento e di alienazione che si sono verificati altrove, in altri contesti sociali e storici. Come ha osservato Franco Ferrarotti, da noi la cultura contadina ha fornito quella base d’identità e quella sorta di ammortizzatore segreto delle crisi sociali ad ampio raggio che ha permesso una trasformazione senza particolari traumi. Nelle Marche, in Umbria e in Toscana, per esempio, molti mezzadri sono diventati piccoli e medi imprenditori protagonisti dei cosiddetti distretti industriali. Se si vanno a leggere le “storie di vita” raccolte tra i contadini meridionali che raggiungono il triangolo industriale per farsi operai nelle fabbriche o impiegati negli uffici, vediamo che essi hanno rotto gli schemi del mito della fabbrica fordista come motore di civiltà e della città come luogo armonico dove l’uomo trova il suo equilibrio. E invece, in quei racconti si scopre che si possono avere i piedi in fabbrica alla catena di montaggio o in un ufficio dietro ad un computer, ma gli schemi mentali prevalenti sono ancora fermi al “paese mio”, immersi nella cultura del borgo d’origine, chiusi nel suo controllo sociale».

Città e campagna: dalle fabbriche agli orti

«Per decenni, in agosto, gli ex contadini sono tornati coi pullman per un mese nei paesi da cui erano partiti. È stato un rito a cui almeno due generazioni non hanno rinunciato. Un modo per continuare a vivere la cultura agricola nella società industriale. Qui a Tor Pignattara per esempio – sorride Pascale – così come negli altri quartieri di Roma, le borgate sono state costruite da ex contadini emigrati da altre province del Lazio e dalle regioni meridionali che si portavano dietro la loro cultura agricola: da borgate questi quartieri oggi sono diventati la parte più vitale della città, non si percepiscono più come periferia perché il centro non esiste più, è solo turismo e deserto abitativo: la vita sta nelle ex borgate

La crisi del rapporto tra agricoltura e ambientalismo

Così, però, sopravvive solo un gancio culturale e storico, ma il rapporto tra campagna e città, tra tecnologia e agricoltura non si accentua ancora di più? «Certo che sì. Ed è una grande conquista la modernizzazione dell’agricoltura. Essa si è alimentata per lungo tempo di un rapporto molto stretto tra agricoltori e cultura agronomica ed economico-agraria. E a consolidare tale relazione tra conoscenza esperienziale e conoscenza scientifica emerge, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, il ruolo centrale dello Stato sia per quanto riguarda l’istruzione agraria che per quanto concerne la ricerca, la sperimentazione e la divulgazione delle innovazioni agrarie. Questo ruolo centrale dello stato si mantiene saldo fino alla seconda metà degli anni ‘50».

Con lo spostamento del baricentro della politica economica nazionale dall’agricoltura all’industria, «si ha un fatto gravissimo poco indagato dagli studi storici. Si riduce sempre di più il sostegno all’istruzione agraria e in generale al sistema pubblico della conoscenza agricola. La gran parte dei tecnici che escono dalle scuole e dalle facoltà di agraria vengono assunti in misura maggiore rispetto al passato nelle industrie produttrici di mezzi tecnici (macchine, concimi, mangimi, ecc.) per l’agricoltura e sono adibiti alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. E così gli agricoltori diventano destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche capaci di fare da filtro nel rapporto tra questi e le industrie produttrici di mezzi tecnici. È da allora che viene a mancare un rapporto paritario e biunivoco tra agricoltura e conoscenza scientifica. Il venir meno progressivamente di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e nelle politiche territoriali costituisce una delle cause di fondo della rottura dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali. Una rottura originata dall’erosione progressiva delle relazioni interpersonali nelle campagne e dalla solitudine in cui è lasciato l’agricoltore. La rottura ecologica è essenzialmente una frattura della conoscenza e da qui prende il via il percorso della perdita di senso e di ruolo del settore agricolo».

Gli anni del controesodo e l’agricoltura sociale

Però di lì a breve anche l’entusiasmo per il progresso e per le meraviglie della vita urbana entreranno in crisi… «Sì, tanto che negli anni ‘70 avviene un processo inverso all’esodo: comincia una sorta di controesodo». Ovvero, ci riagganciamo con l’immagine con cui abbiamo aperto questo articolo… «Nel ’77 si approva la 285 che contiene anche dei capitoli sulla possibilità di costituire cooperative agricole giovanili su terre di proprietà pubbliche: da quelle esperienze nascono le prime forme di agricoltura biologica e di ospitalità agrituristica».

Erano anni di fermenti, di contestazioni… Si metteva in discussione l’esistente e si cercavano trasformazioni… «Ecco, questo movimento che interessa il mondo agricolo si incrocia con quello degli operatori sociali alla ricerca di forme alternative ai manicomi nel trattamento della sanità mentale. La Legge Basaglia è del ‘78. Nascono così le prime forme di agricoltura sociale: si torna a quei valori sociali che l’agricoltura aveva in parte smarrito. Le nuove agricolture che prendono forma hanno in sé ovviamente la produzione di cibo ma il cibo non è il loro centro: decisive diventano le relazioni e la costruzione di comunità».

Perché, allora, questo percorso virtuoso si è interrotto o non ha funzionato? «A partire dagli anni ’80 si cominciò ad elaborare queste tematiche nel confronto tra le organizzazioni agricole, il mondo ambientalista ed esponenti della ricerca: si ponevano le basi per un rapporto tra agricoltura ed ecologia su basi scientifiche. Purtroppo, però, non ci fu la capacità di saldare rapporti e culture. L’attenzione prevalente nel Paese si era spostata sui temi dello sviluppo industriale. C’è stata incomprensione».

Crisi di rappresentanza del mondo agricolo

Una “incomprensione” che – secondo Pascale – ha origine in diversi “vizi” e “scorciatoie” maturate soprattutto a Sinistra. «Cominciamo a dire che i movimenti ambientalisti non nascono a sinistra, ma storicamente a destra e in origine sono movimenti anti modernisti. Poi, sì, arrivano anche a sinistra: però vengono vissuti più come tendenze e mode da seguire per adeguarsi; la sinistra non riesce a interpretare questi movimenti alla luce della propria storia, bensì come una cultura che pone al centro nuovi conflitti sociali da utilizzare come sostituti del vecchio conflitto di classe. Non nasce un dialogo tra i movimenti ambientalisti e una cultura agricola che sta cominciando ad affrontare i temi della ricomposizione tra modernizzazione ed equilibri ecologici. Si arriva così, nel 1990, in un clima di incomunicabilità, ai referendum sulla caccia e sull’utilizzo dei fitofarmaci che non raggiungono il quorum e poi, nel ‘92, a quello che abolirà il ministero dell’Agricoltura: così il fossato diventa una barriera. Il referendum del ‘92 venne proposto dalle Regioni e fece esplodere una vera e propria crisi di rappresentanza dell’agricoltura. È stato quello l’apice della crisi del rapporto tra agricoltura e società».

La “famigerata” questione di Federconsorzi

Sono quelli anche gli anni in cui succedono cose politicamente rilevanti: per esempio il fallimento di Federconsorzi che era il regno di Coldiretti e Confagricoltura. Una crisi che ha segnato profondamente la rappresentanza agricola fino ad arrivare oggi all’inserimento della locuzione “sovranità alimentare” nella denominazione del ministero delle Politiche agricole. Insomma, l’agricoltura torna in primo piano… «No, direi proprio di no. O almeno, non ancora. Il caso della Federconsorzi è proprio il segno della diversità italiana: segna quale sia stato il livello dello scontro politico sulle campagne in Italia. Qui, per esempio, a differenza che in tutti gli altri grandi Paesi europei, la rappresentanza del mondo agricolo è frammentata in una molteplicità di organizzazioni. Questa è una caratteristica assolutamente italiana e continua a segnare la nostra storia». Parliamone un po’, prima di chiudere questa prima rassegna sulla storia agricola italiana per poi tornarci su con l’analisi delle vicende più legate all’attualità…

L’anomalia italiana e la frammentazione

«L’anomalia italiana è determinata dal fatto che, a differenza di tutti gli altri grandi Paesi europei, la sinistra non nasce nelle fabbriche e nelle città, ma nasce nelle campagne: le prime forme associative e politiche nascono nelle campagne. Questa specificità va collegata alle antiche tradizioni civili del mondo contadino del Mediterraneo. Ai riti di ospitalità o alle veglie nelle serate invernali o allo scambio di mano d’opera o all’idea di vicinato legata ad una reciprocità di diritti e doveri tra persone che abitano terre o case contigue. Erano forme concrete di relazionalità con cui gli individui si aiutavano vicendevolmente. Il faticoso passaggio dalla spontaneità all’organizzazione è favorito dall’incontro tra il movimento dal basso dei contadini e l’opera di propaganda dei primi “apostoli” del socialismo. La Federterra nasce nel 1901 prima della Cgil che sarà costituita nel 1904. E in quel congresso si consuma il primo scontro ideologico tra due visioni di rappresentanza contadina. La prima prefigura un’organizzazione prettamente bracciantile. L’altra aperta anche ai ceti intermedi, ai mezzadri, affittuari, compartecipanti, coloni e piccoli proprietari coltivatori. La soluzione trovata è però ambigua: fare due sezioni distinte, a patto che tutti operino per la socializzazione della terra. Una parola d’ordine marxista in contrasto con le aspirazioni dei contadini. E molti, spaventati, si tengono a distanza dalla Federterra. Nel frattempo, si avvia un processo di formazione di contadini proprietari. Grazie alle rimesse degli emigrati, un flusso continuo di moneta pregiata permette a braccianti e contadini poveri di comprare circa un milione di ettari di terra. Il mondo cattolico si mobilita per organizzarli: la parola d’ordine della “Rerum Novarum” di Leone XIII è “tutti proprietari”. Dopo l’avvento del fascismo, anche a sinistra, nell’ambito di una riflessione sulla crisi della democrazia e sulle cause della dittatura, si punta il dito sulla mancanza di adeguate organizzazioni autonome delle diverse categorie sociali. Si fa strada l’idea che i “piccoli contadini” o “contadini poveri” divenuti proprietari avrebbero potuto esprimersi come una categoria con pari dignità rispetto alle altre. Nel secondo dopoguerra, una parte del mondo cattolico si pone in competizione con la sinistra nel guadagnare il consenso delle campagne, dando vita ad una organizzazione di coltivatori che s’ispira direttamente alla dottrina sociale della Chiesa. La Coldiretti non nasce, pertanto, come atto scissionistico ai danni della Cgil unitaria – come la storiografia ha finora erroneamente raccontato –, ma ai danni della Confida (l’attuale Confagricoltura). Tale operazione è all’origine della debolezza della rappresentanza del settore primario in Italia. Nei principali Paesi europei, la rappresentanza agricola si è fregiata e continua a fregiarsi di grandi e pressoché uniche organizzazioni professionali nazionali. Da noi, la “proprietà contadina” è, invece, assunta come modello socio-produttivo da privilegiare per costruire il moderno partito di massa nelle aree rurali. Tuttavia, differenziarsi dalla Confida non significa per la Coldiretti rinunciare alle intese necessarie su obiettivi di interesse comune. Entrambe le organizzazioni gestiranno insieme il grande salvadanaio e centro di potere dell’agricoltura italiana: la Federconsorzi. La Coldiretti manterrà sempre una posizione dominante, avvantaggiata dal decreto del 1948 che fissa in 100 lire (la stessa cifra dell’anteguerra) il valore nominale delle azioni per diventare soci dei consorzi agrari».

I ritardi della politica e la perdita di senso

Ma come rispose la sinistra? «Settori rilevanti della sinistra rimasero fedeli all’idea di organizzare nella Cgil salariati agricoli e contadini. Ci vollero ben 10 anni perché nascesse l’Alleanza dei contadini, superando ritardi e resistenze di vario tipo: ma la Coldiretti aveva già acquisito un primato nella rappresentanza delle campagne che difficilmente poteva essere scalfito». E ora? «Se gli agricoltori vogliono superare la condizione di categoria priva di voce e di rappresentanza alle prese con una società restia a riconoscerne il ruolo – afferma Pascale – credo che occorra ripartire dai valori sociali legati alla terra. Non più la centralità della dimensione produttiva, ma la centralità della cultura agricola millenaria fondata sui valori di solidarietà e reciprocità, oggi indispensabili per ricostruire le comunità e difendere la democrazia. Altrimenti l’agricoltura finisce per consunzione di senso, diventando un ramo residuale della modernità. Ma quei valori, che costituiscono l’eredità più preziosa lasciata dal mondo agricolo alla società contemporanea, non si ritroveranno altrove: perdere l’agricoltura significa perdere il senso di noi stessi».

Post in evidenza

C’è la Sicilia nel Menù del film gastronomico

NinoSutera C’è la Sicilia nel Menù del film gastronomico                                               Regione Enogastronomica d’Europa 20...