Giuliana Cattarossi&Giovanni Colugnati
Progetto “Perricone”
Autarchia
o globalizzazione? E’ meglio usare vitigni autoctoni o internazionali?
Da
molti anni si dibatte su questo spinoso argomento che divide il mondo
vitivinicolo nazionale tra chi sostiene a spada tratta la necessità di far uso
di varietà straniere, per migliorare qualitativamente la produzione dei nostri
vini, e chi al contrario si batte per la difesa delle grandi varietà native
regionali (tra i quali, per inciso, noi, che ne abbiamo fatto uno scopo
professionale).
Il
fenomeno dell’incremento ampelografico internazionale in Italia si è sviluppato
in modo deciso dopo lo scandalo del metanolo del 1986 innescando un fenomeno
che continua ancora ai giorni nostri. Paradossalmente però l’Italia è il Paese
al mondo che possiede più vitigni autoctoni e quindi teoricamente non avrebbe
alcun bisogno di fare ricorso a varietà straniere; a pensarci bene, dovremmo
dire di provenienza francese, a parte piccole quantità di vitigni tedeschi
nella viticoltura altoatesina, come il Riesling, il Sylvaner, il Gewurztraminer
o il Muller Thurgau, che comunque insistono sul territorio da molto tempo,
anche per affinità culturale.
Ed
insistendo nel paradosso, dobbiamo precisare che proprio la Francia è la
nazione che possiede meno vitigni autoctoni, ma al contempo li utilizza
talmente bene sul suo territorio, valorizzando al massimo quelle determinate
aree di produzione dei vini locali dalla spiccata tipicità, riconosciuta
internazionalmente.
In
genere il termine autoctono (o tradizionale) viene utilizzato in
contrapposizione ad alloctono (o internazionale). Nell’accezione comune,
autoctoni (nativi) sono considerati quei vitigni che da secoli sono allevati
in un determinato territorio contribuendo a farne la storia e pertanto hanno un
legame “storico” e, soprattutto, culturale con quel territorio, nel quale
raggiungono la migliore espressione. Si tratta di vitigni giunti in epoca
remota, che si sono progressivamente acclimatati sviluppando caratteristiche
varietali uniche, irripetibili e soprattutto riconoscibili. Pensando a vitigni
quali Nero d’Avola, Catarratto (Lucido) oppure Perricone, tanto per fare
qualche esempio, balza evidente la Sicilia e la sicilianità, perché di questo
territorio costituiscono segni distintivi sotto il profilo vitivinicolo, ma
anche tradizionale e culturale, tanto da definirli, appunto, nativi.
Alloctoni
sono invece quei vitigni che hanno una grande diffusione in aree geografiche
ampie e a diverse latitudini. La loro espressione, sia pure con una lieve
differenziazione legata alla zona di produzione, è tarata sull’omogeneità delle
caratteristiche organolettiche dei prodotti. Quindi, la scelta di coltivare
vitigni internazionali, se effettuata unicamente per ragioni di mercato, non va
nella direzione della valorizzazione del territorio nella sua tipicità
vinicola, ma al contrario “tradisce” la tutela e la salvaguardia della propria
identità territoriale.
La
globalizzazione, ormai invasiva e pervasiva della quotidianità esistenziale, da
un lato tende a strutturare un mercato sempre più competitivo sul piano della
qualità (bassa) e del profitto (alto), dall’altro attiva una condotta
produttiva che appiattisce e omologa il gusto del vino in un processo
inevitabile verso la banalizzazione.
Secondo
molti (e noi tra questi), un effetto collaterale potrebbe essere una
considerevole riduzione della gamma delle sensazioni organolettiche disponibili
e un evidente pericolo per la biodiversità viticola (erosione genetica): la
strategia per vincere la sfida della globalizzazione è senz’altro
l’affermazione, senza se e senza ma, della “tipicità” come idea fondante di un
territorio che vuole rimanere unico nella sua originalità.
Si
tratta di un obiettivo prestigioso e di un percorso sicuramente non facile e
lungo, che passa attraverso la riscoperta dei vitigni tradizionali e nativi,
che hanno fatto la storia del territorio, e conduce alla valorizzazione
dell’originalità come complesso di elementi caratteristici riscontrabili nei
prodotti appartenenti alla stessa denominazione di origine.
L’unicità,
prima di ogni altra considerazione, è fatta di esperienza, di tradizione e di
tecnica di uomini consolidata nel tempo in un determinato territorio, che è
diventata tradizione.
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