Giuliana Cattarossi, Giovanni Colugnati
Colugnati&Cattarossi, Partner “Progetto
PER.RI.CON.E.”
In questo ambito
rientra sia la presenza di eventuali sottovarietà, osservata solo in certi
vitigni, sia la variabilità clonale. Quest’ultima è una componente importante
della variabilità genetica nella vite ed è quella che rende possibile il
miglioramento delle cultivar attraverso la selezione di genotipi con caratteristiche
colturali o tecnologiche migliorative, i cui cloni sono registrati e sfruttati
commercialmente.
Da un punto di vista genetico la natura di tale variabilità è ancora in
buona parte sconosciuta, legata talora a variazioni nella trascrizione, ma
frequentemente anche nella traduzione (variabilità epigenetica). Si è osservato
che alcune cultivar presentano un’elevata variabilità intravarietale, altre
invece alquanto modesta, e non sempre questo avviene in funzione di un più o
meno lungo periodo di coltura o della diffusione in ambienti dove i fenomeni
mutageni o causa di differenze nell’espressione genica sarebbero favoriti.
Un’ampia variabilità clonale è a tutti gli effetti una risorsa positiva su
cui contare, perché aumenta le possibilità di adattamento ad ambienti e
situazioni colturali diverse, di reattività positiva agli stress ed ai
parassiti, e rappresenta una fonte di complessità gustativa nei vini. Per molti
vitigni autoctoni italiani, soprattutto minori, pari a più della metà di quelli
registrati, la variabilità genetica intravarietale non è ancora stata
esplorata: non ve ne sono pertanto cloni selezionati e, fatto ancor più grave,
non se ne è attuata una selezione sanitaria nei confronti delle più dannose
virosi, selezione che si accompagna a quella genetica.
All’opposto, un fatto estremamente preoccupante è la veloce erosione di
variabilità genetica intravarietale: se infatti da un lato la selezione è
d’obbligo, dall’altro c’è il grave rischio di perdere irreparabilmente
materiale genetico clonale. Questo andrebbe invece conservato in appositi
contesti, considerando che l’Italia ne è ancora ricca, ma si sta avviando
velocemente all’adozione di pochi genotipi per ogni vitigno, mentre nulla di
mirato e coordinato si sta facendo nel nostro Paese per tutelare questo
patrimonio che si assottiglia sempre di più con la sostituzione dei vigneti
vecchi e storici (Schneider, 2003). In Francia esistono attualmente ben 102 conservatoires di cloni, per 88
cultivar da vino, con in media 130 cloni per cultivar per sito (Lacombe et al.,
2004).
Analizzando alcuni esempi di sottovarietà all’interno di uno stesso vitigno
ci si può rendere conto dell’ampiezza della variabilità intravarietale.
Nel caso della ‘Fortana’, si era stabilito che le diversità osservate erano dovute alla propagazione, nell’ambito della stessa cultivar, di due diversi semenzali, forse non separati in cultivar distinte perché tra loro simili (Silvestroni et al., 1997), da cui la conferma di una supposta origine “policlonale” di alcuni vitigni (Rives, 1961), anche se in tal caso sarebbe più corretto parlare di numerosi
semenz
Una situazione simile è stata osservata nel ‘Prosecco’, con un ‘Prosecco’
ad acino rotondo (il più diffuso), distinto per il profilo genetico rivelato da
RAPDs e microsatelliti da un ‘Prosecco lungo’, ad acino ellittico (Calò et al.,
2000): in tal caso, avendo lo studio dimostrato anche diversità colturali ed
enologiche, oltre che ampelografiche, tra i due genotipi, essi sono stati
separatamente catalogati nel Registro delle Varietà di Vite.
Anche il ‘Nebbiolo Rosé’, considerato una sottovarietà “storica” del
Nebbiolo (e per questo previsto nelle più prestigiose DOCG), si è dimostrato
esserne geneticamente distinto (Botta et al., 2000), se pure imparentato (Schneider
et al., 2004), e andrebbe pertanto iscritto separatamente nel Registro delle
Varietà. Il Nebbiolo Michet invece, altra sottovarietà “storica”, non è
distinto dal ‘Nebbiolo’ geneticamente, ma solo da un punto di vista morfologico
per la diffusa presenza del virus GFL che ne infetta la totalità delle piante.
Anche il ‘Negroamaro o Negro amaro precoce’, recentemente individuato in
Puglia, è stato catalogato separatamente nel Registro, anche se per la verità i
marcatori del DNA microsatelliti non lo indicano come originato da un diverso
semenzale rispetto al ‘Negro amaro’ (Calò et al. , 2000): si tratta in sostanza
di una mutazione somatica, che però, proprio come accaduto per i ‘Pinot nero’,
‘bianco’ e ‘grigio’, ha interessato un carattere troppo evidente ed
interessante dal punto di vista colturale (quale la precocità di maturazione di
oltre 15 giorni) per non farne una cultivar distinta.
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