giovedì 19 giugno 2025

Variabilità intravarietale.


Giuliana Cattarossi, Giovanni Colugnati

Colugnati&Cattarossi, Partner “Progetto PER.RI.CON.E.”

 

 

In questo ambito rientra sia la presenza di eventuali sottovarietà, osservata solo in certi vitigni, sia la variabilità clonale. Quest’ultima è una componente importante della variabilità genetica nella vite ed è quella che rende possibile il miglioramento delle cultivar attraverso la selezione di genotipi con caratteristiche colturali o tecnologiche migliorative, i cui cloni sono registrati e sfruttati commercialmente.

Da un punto di vista genetico la natura di tale variabilità è ancora in buona parte sconosciuta, legata talora a variazioni nella trascrizione, ma frequentemente anche nella traduzione (variabilità epigenetica). Si è osservato che alcune cultivar presentano un’elevata variabilità intravarietale, altre invece alquanto modesta, e non sempre questo avviene in funzione di un più o meno lungo periodo di coltura o della diffusione in ambienti dove i fenomeni mutageni o causa di differenze nell’espressione genica sarebbero favoriti.

Un’ampia variabilità clonale è a tutti gli effetti una risorsa positiva su cui contare, perché aumenta le possibilità di adattamento ad ambienti e situazioni colturali diverse, di reattività positiva agli stress ed ai parassiti, e rappresenta una fonte di complessità gustativa nei vini. Per molti vitigni autoctoni italiani, soprattutto minori, pari a più della metà di quelli registrati, la variabilità genetica intravarietale non è ancora stata esplorata: non ve ne sono pertanto cloni selezionati e, fatto ancor più grave, non se ne è attuata una selezione sanitaria nei confronti delle più dannose virosi, selezione che si accompagna a quella genetica.

All’opposto, un fatto estremamente preoccupante è la veloce erosione di variabilità genetica intravarietale: se infatti da un lato la selezione è d’obbligo, dall’altro c’è il grave rischio di perdere irreparabilmente materiale genetico clonale. Questo andrebbe invece conservato in appositi contesti, considerando che l’Italia ne è ancora ricca, ma si sta avviando velocemente all’adozione di pochi genotipi per ogni vitigno, mentre nulla di mirato e coordinato si sta facendo nel nostro Paese per tutelare questo patrimonio che si assottiglia sempre di più con la sostituzione dei vigneti vecchi e storici (Schneider, 2003). In Francia esistono attualmente ben 102 conservatoires di cloni, per 88 cultivar da vino, con in media 130 cloni per cultivar per sito (Lacombe et al., 2004).

Analizzando alcuni esempi di sottovarietà all’interno di uno stesso vitigno ci si può rendere conto dell’ampiezza della variabilità intravarietale.

Nel caso della ‘Fortana’, si era stabilito che le diversità osservate erano dovute alla propagazione, nell’ambito della stessa cultivar, di due diversi semenzali, forse non separati in cultivar distinte perché tra loro simili (Silvestroni et al., 1997), da cui la conferma di una supposta origine “policlonale” di alcuni vitigni (Rives, 1961), anche se in tal caso sarebbe più corretto parlare di numerosi 

semenz

Una situazione simile è stata osservata nel ‘Prosecco’, con un ‘Prosecco’ ad acino rotondo (il più diffuso), distinto per il profilo genetico rivelato da RAPDs e microsatelliti da un ‘Prosecco lungo’, ad acino ellittico (Calò et al., 2000): in tal caso, avendo lo studio dimostrato anche diversità colturali ed enologiche, oltre che ampelografiche, tra i due genotipi, essi sono stati separatamente catalogati nel Registro delle Varietà di Vite.

Anche il ‘Nebbiolo Rosé’, considerato una sottovarietà “storica” del Nebbiolo (e per questo previsto nelle più prestigiose DOCG), si è dimostrato esserne geneticamente distinto (Botta et al., 2000), se pure imparentato (Schneider et al., 2004), e andrebbe pertanto iscritto separatamente nel Registro delle Varietà. Il Nebbiolo Michet invece, altra sottovarietà “storica”, non è distinto dal ‘Nebbiolo’ geneticamente, ma solo da un punto di vista morfologico per la diffusa presenza del virus GFL che ne infetta la totalità delle piante.

Anche il ‘Negroamaro o Negro amaro precoce’, recentemente individuato in Puglia, è stato catalogato separatamente nel Registro, anche se per la verità i marcatori del DNA microsatelliti non lo indicano come originato da un diverso semenzale rispetto al ‘Negro amaro’ (Calò et al. , 2000): si tratta in sostanza di una mutazione somatica, che però, proprio come accaduto per i ‘Pinot nero’, ‘bianco’ e ‘grigio’, ha interessato un carattere troppo evidente ed interessante dal punto di vista colturale (quale la precocità di maturazione di oltre 15 giorni) per non farne una cultivar distinta.

 

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