domenica 27 aprile 2025

Silvio Garattini, il fumo, il vino e ...

 

Vi siete mai chiesto perchè ultimamente anche il vino è diventato divisivo? Si da una parte c'è la ricerca scientifica, che sostiene la propria tesi, dall'altra il mondo politico che sostiene che ...anche l'acqua fa male.!


 

 Il fumo è un nemico giurato della salute. Così come l’alcool. Che non è meno pericoloso, eppure «a nessuno viene in mente di organizzare un festival della sigaretta, invece ogni settimana c’è un festival dedicato al vino». Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto Mario Negri Irccs di Milano, ha parlato di sanità a Brescia all’auditorium Santa Giulia su invito dell’associazione Asd Rosa running team.

 Il professor Silvio Garattini  parla dei numeri del Vinitaly e del settore. Spiegando che si tratta di una produzione di «4,1 miliardi di litri contenenti 492 milioni di litri di alcol etilico». Ovvero: «Una quantità spaventosa di alcol che contribuisce in modo significativo allo sviluppo di tumori». E che è «responsabile di molte malattie e, fra l’altro, di molti incidenti stradali».

Garattini spiega che per tutelare la salute bisognerebbe scrivere sulle bottiglie di vino «“questo prodotto è dannoso alla salute”, come avviene in Nuova Zelanda, come suggerito recentemente dall’Irlanda e come richiesto da vari appelli della comunità scientifica». Invece succede l’esatto contrario. Ovvero    di non accettare la cancerogenicità dell’alcol   che bisogna rompere la criminalizzazione del vino, nonché le follie ideologiche attraverso l’aiuto della scienza  . È veramente imbarazzante che si neghi l’evidenza, conclude il Prof Garattini 

sabato 26 aprile 2025

Biodiversità della vite.

 


Giuliana Cattarossi, Giovanni Colugnati.

Progetto “Perricone”

 

Il termine di biodiversità, entrato nel linguaggio comune dopo la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED) di Rio 1992, è la contrazione di “diversità biologica”, espressione con la quale si identifica la diversità della vita sulla terra.


Nel suo significato etimologico biodiversità significa diversità biologica, diversità degli esseri viventi che popolano la terra e che può essere rilevata sia a livello molecolare, genetico, sia a livello di specie, ma anche a livello antropologico, e più in generale, a livello di ecosistemi nei quali si collocano gli esseri viventi.

La diversità biologica viene classificata a livello genetico, di organismi viventi e di ecosistema. Secondo tale definizione, che spazia dalla varianza del patrimonio genetico del singolo individuo sino all’insieme della varietà biologica di ecosistemi complessi, la biodiversità tende a coincidere con quello che viene definito il capitale naturale; nell’analisi degli aspetti ambientali ed economici, è importante, quindi, precisare, di volta in volta, di quale segmento ci si occupa.

La biodiversità non va però ridotta semplicemente alla diversità (specificità) genetica. La diversità del mondo vivente ha molti aspetti: vi è diversità fra gli ambienti (marino, terrestre, equatoriale, polare, di montagna), fra le specie e fra gli individui all'interno di una specie ed è il risultato di un lento e continuo cambiamento che coinvolge la terra nel suo insieme, dalla geologia al clima agli esseri viventi.

Per questi motivi essa va studiata sotto diversi profili, biologico, antropologico, economico, geopolitico, giuridico, ecc. E’ fondamentale anche tenere in considerazione la componente relazionale della biodiversità, perché essa è frutto di un processo in cui tutte queste componenti interagiscono e, più in particolare, scaturisce dalla forte interazione fra profili biochimici ed antropologici, tanto che si deve parlare propriamente di sistemi bioculturali.

Purtroppo il dibattito internazionale non concepisce la biodiversità in tale sua complessità e tende a sminuirne la vastità e la portata. Bisogna considerare infatti che le stesse risorse genetiche sono al tempo stesso beni di consumo e beni strumentali alla produzione di altri beni, ma spesso a livello internazionale vengono considerate solamente come commodities.

 

Vite selvatica e vite domestica. Le scoperte archeologiche degli ultimi anni e le potenzialità della biologia molecolare permettono oggi di affrontare il problema dell’origine dei vitigni sotto una diversa prospettiva, partendo dalla determinazioni dei rapporti genetici di parentela tra vite selvatica (Vitis vinifera L. ssp. sylvestris) e vite domestica (Vitis vinifera L. ssp. sativa).

La vite selvatica cresce spontaneamente nei corsi d’acqua dei Paesi che si affacciano nel bacino del Mediterraneo, dal Portogallo al Tagikistan, lungo i maggiori fiumi continentali dell’Europa occidentale e nell’Africa del Nord (Arnold et al, 1998) ed è una specie dioica con una rara presenza (5%) di individui ermafroditi.

Dal punto di vista della biologia vegetale, è una liana rampicante che, allo stato naturale, risale i tronchi degli alberi delle foreste, fino a raggiungerne la sommità, dove fiorisce producendo poi i propri acini: gli uccelli apprezzano molto questi frutti, gustosi e facilmente accessibili, e cibandosene ne diffondono i semi, perpetuandone così la specie.

Quasi certamente i nostri progenitori si arrampicavano pericolosamente sugli alberi più alti della foresta, solo per riuscire a raccogliere queste bacche rosse, povere di potere nutritivo, ma spinti da una grande sorpresa verso una situazione inaspettata. E’ il concetto di “serendipità” alla base dell’ “ipotesi paleolitica” formulata da McGovern (2003), secondo la quale, alcuni uomini primitivi, attratti dai colori accattivanti degli acini, raccolsero qualche grappolo d’uva selvatica, rimanendo sedotti dal suo gusto aspro e zuccherino. Probabilmente ne deposero diversi grappoli in qualche recipiente (di pelle, legno o pietra) e dopo qualche giorno, sotto il peso dei grappoli sovrastanti, dagli acini di quelli più bassi trasudò del succo.

I lieviti della fermentazione, poi, presenti naturalmente sulla buccia degli acini e liberi nell’aria sotto forma di spore, probabilmente trasformarono quel succo in una sorta di vino spontaneo e primordiale a basso tenore alcolico (poco più di un succo semi-fermentato). Una volta mangiati tutti gli acini, il nostro antenato paleolitico assaggiò più o meno volontariamente quella bevanda, restando avvinto da una piacevole euforia che gli instillò un unico pensiero fisso: berne ancora per avvicinarsi a Dio o cadere negli inferi dell’ebbrezza. Infatti non fu certo l’aroma del vino, oppure un piacevole retrogusto, ad interessare per primo l’attenzione dei nostri antichi progenitori ma piuttosto i suoi effetti. In una esistenza quanto mai ingrata, brutale, pericolosa e soprattutto breve coloro che per primi provarono gli effetti dell’alcool credettero di avere avuto un anticipo del paradiso: le ansie scomparvero, i loro timori si attutirono e le idee si formarono più facilmente, tanto da sentirsi per un breve lasso di tempo onnipotenti. Nonostante l’ebbrezza ed i suoi effetti le sensazioni finchè duravano erano troppo belle per resistere alla tentazione di provarle di nuovo (Johnson, 1991).

Però, in assenza di recipienti idonei, quel “Beaujolais nouveau dell’Età della pietra” (McGovern, 2003) doveva essere consumato piuttosto rapidamente, prima che si trasformasse in aceto. Ma le cose cambiarono quando, tra 12 e 10 mila anni fa, le popolazioni umane divennero stanziali, abbandonando il nomadismo e dando vita a insediamenti permanenti che sorsero con la nascita dell’agricoltura: questo fenomeno, noto come la “rivoluzione neolitica”, ebbe come conseguenza l’aumento della densità di popolazione e la necessità di conservare il cibo più a lungo.

 

giovedì 24 aprile 2025

"GAS – PRONTO A TAVOLA": UN’INIZIATIVA PER UN’AGRI-CULTURA SOSTENIBILE

 


Sabato 10 maggio 2025, presso l’Hotel Garden di Pergusa (Enna), si terrà l’evento “GAS – Pronto a Tavola”, una giornata interamente dedicata alla promozione dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) e al valore dell’agricoltura sostenibile e dei prodotti del territorio siciliano.


La manifestazione, promossa dall’Assessorato Regionale dell’Agricoltura, dello Sviluppo Rurale e della Pesca Mediterranea – Dipartimento Regionale dell’Agricoltura, si pone come obiettivo quello di rafforzare la cultura della sostenibilità alimentare attraverso momenti informativi, degustazioni, show cooking e spazi di partecipazione attiva per cittadini e produttori locali.

Il programma della giornata prevede:

·         Ore 10:00 – Conferenza di apertura con la presentazione dell’opuscolo e della piattaforma digitale “GAS – Pronto a Tavola”

·         Ore 12:30 – Apertura dell’area Show Cooking, a cura degli chef del Garden Restaurant di Enna

·         Ore 13:30 – Degustazione di prodotti tipici e pausa pranzo

·         Ore 15:30 – Spazio aperto GAS con possibilità di adesione per nuovi partecipanti

·         Ore 17:00 – Spettacoli e chiusura dell’evento

L’iniziativa rappresenta un’occasione importante per sensibilizzare la comunità sul valore delle filiere corte, del consumo consapevole e della valorizzazione del patrimonio agroalimentare locale.

 


Paradossi politici: nel giorno del Made in Italy la Camera sceglie McDonald’s come testimonial

 

Prima di pubblicare l'articolo, ho chiesto ai miei collaboratori di verificarlo, perchè certo non possiamo pubblicare notizie false e prive di fondamento.

Vi assicuro che l'articolo è stato pubblicato su una fonte autorevole qual'è  gamberosso.

Com'è   nostro stile, non orientiamo il convincimento dei nostri assidui  frequentatori del blog, ognuno di noi,  ne trarrà le proprie considerazioni


La multinazionale dei fast food è protagonista della celebrazione della Giornata del "Made in Italy" in parlamento.  

di

Stefano Polacchi

 

15 aprile, 1452: nasce Leonardo Da Vinci, simbolo del genio italico nel mondo. 15 aprile 2025: la seconda edizione della Giornata del made in Italy, alla Camera dei deputati, celebra McDonald’s come uno dei protagonisti, dei volti, del “made in Italy” nel mondo. La prima considerazione spontanea, rispetto alla scelta della data di nascita di Leonardo come Giornata del made in Italy, è se non sarebbe stato meglio aspettare il 2 maggio, data della morte dello scienziato italiano, per celebrare McDonald’s. Questo non per motivi ideologici, ma perché se il made in Italy è rappresentato dal modello Mc, allora sembra davvero che l’Italian Style abbia più poco da dire. Tanto più dopo aver sentito le considerazioni del ministro Lollobrigida (Fratelli d’Italia) sulla bontà del nostro cibo contro lo spam made in Usa. Ma riavvogliamo un po’ il nastro della giornata di celebrazione…

Può McDonald’s essere un simbolo del made in Italy?

Ma insomma, al di là di cosa se ne pensi di McDonald’s e fermo restando che non fa certo male all’Italia se un gigante del genere aiuta la filiera del pomodoro di Pachino o delle pere dell’Emilia Romagna Igp (come ricorda Giorgia favaro), una riflessione viene abbastanza spontanea: è possibile pensare di presentare il Big Mac come bandiera del made in Italy? I simboli, si sa, sono importanti: fanno parte dei tasselli che costruiscono il nostro Dna. Che Mac si presenti come il salvatore della patria, può anche starci: è legittimo per chi investe nelle nostre industrie alimentari. ma che sia il Parlamento italiano a farlo, sembra un po’ meno consono! Nel senso: McDonald’s non è solo investimento in manzi e polli, pere o pomodori: è un modello, il fast food di stile statunitense. E cosa c’entra con l’Italian Style?

 


Dal paradosso alla goliardia

Be’, vero che la Giornata è dedicata al made in Italy, ma comunque alla base del nostro prodotto c’è – o dovrebbe esserci – lo stile di vita, quello sì di grande appeal nel mondo. Ma questo negli hamburger di Mac non c’è. Ferme restando tutte le sue qualità, anche positive, per il nostro Paese: dai livelli di occupazione alla sostenibilità dei packaging (erano presenti all’incontro anche Roberto Calugi di Fipe e Andrea D’Amato di Seda, leader nel packaging sostenibile a base di carta), è davvero difficile – per quanto possa essere forte la provocazione e il paradosso – far passare il Chickenburger come una bandiera del made in Italy. Il punto, poi, è che quando è spimto alle streme conseguenze e senza una comprensibilità di fondo condivisa, il paradosso e la provocazione rischiano di diventare goliardia. E sinceramente, nella nostra Storia e all’interno di quella Camera dei Deputati, ne abbiamo vista di goliardia, di quella che forse è meglio non ripetere più

venerdì 18 aprile 2025

Auguri


 

Agricoltura e ambiente Beni pubblici?

riceviamo e pubblichiamo 





“Il Rapporto 2024 sull’agroalimentare italiano di Ismea, presentato nei giorni scorsi, conferma indirettamente   la preoccupante esistenza di squilibri strutturali nella distribuzione del valore lungo la filiera agroalimentare e, come al solito, purtroppo, a pagare le conseguenze di questa congiuntura negativa sono i piccoli e medi agricoltori, vero e proprio anello debole di tutta la catena. Piccoli e medi produttori, peraltro penalizzati da un cambiamento climatico sempre più pericoloso e da incrementi dei costi di produzioni che hanno messo e stanno mettendo in ginocchio il settore.

C’è poi una altra questione fondamentale: lo strapotere economico e contrattuale della grande distribuzione organizzata, che impone di fatto al comparto primario determinati prezzi di vendita, insostenibili per le piccole e medie imprese. E’ chiaro ed evidente che se l’attività primaria non diventa redditizia e profittevole in tempi definiti e veloci, l’intero sistema alimentare rischia letteralmente di collassare: un po’ come un palazzo senza fondamenta. Una ipotesi da evitare con ogni forza e ogni mezzo istituzionale. Cosa fare, dunque? Innanzitutto è necessario incentivare politiche che tutelino la giusta remunerazione del piccolo e medio agricoltore, sinora schiacciato dallo strapotere della grande distruzione organizzata

Luigi Veronelli,  scomparso 20 anni addietro,  più o meno 40 anni fà aveva lanciato un idea semplice, l'introduzione del prezzo sorgente  “con la trasparenza del prezzo sorgente, il consumatore verrebbe messo in grado di valutare il tipo di ricarico applicato dal rivenditore, e da questo  la sua onestà” ecco bisogna che la politica avvii una strategia per  portare avanti un principio di equità sociale ed etico, sopra tutto a vantaggio del contadino-agricoltore, che spesso un prodotto della propria terra ceduto a 10 centesimi di euro, lo trova in vendita a oltre quattro euro.


 L’Europa si trova a un bivio cruciale, parliamo di giustizia per i lavoratori, ma non possiamo affrontare questa sfida senza considerare tre questioni centrali e interconnesse: riconoscere l’agricoltura come bene pubblico, la lotta ai cambiamenti climatici, la rigenerazione delle aree rurali e interne. 

“Alle istituzioni europee  chiediamo che riconoscano l’agricoltura come un bene pubblico, investano sul settore agricolo, rafforzino i fondi per le aree rurali, con un occhio più attento ai diritti dei lavoratori, e promuovano un patto rurale europeo in cui agricoltura, ambiente e giustizia sociale vadano di pari passo”.

 Il cambiamento climatico   non è solo una crisi ambientale, ma una minaccia diretta per milioni di lavoratori e produttori agricoli, le loro famiglie, le comunità rurali che essendo spesso già marginalizzate, rischiano di essere ulteriormente impoverite. La giustizia climatica è giustizia sociale: non possiamo lasciare indietro nessuno, né i lavoratori né le comunità che dipendono dalla coltivazione della terra”.

 Dobbiamo favorire l’incontro tra piccoli produttori e consumatori in un’ottica nuova, che riconosca il lavoro della terra come bene pubblico, capace di salvaguardare, tutelare e  sostenere pratiche agricole rigenerative che proteggano i suoli, la biodiversità, la qualità dei prodotti.

Deve essere chiaro che non esiste un’Europa giusta senza una campagna viva e non può esistere una transizione ecologica senza chi lavora la terra, perché gli agricoltori sono il primo presidio della cura del territorio 



    L'80% delle risorse europee va a una piccola lobby (20%)di aziende capitaliste. Noi cittadini, contribuenti, consumatori, siamo obbligati a interrompere questo scempio.

Le strategie del Green Deal, come la Strategia Farm to Fork e la Strategia Biodiversità 2030, sono politiche lungimiranti, malgrado qualche agitatore senza scrupolo sostiene il contrario.

 L’81% dei Azionisti di maggioranza,(cittadini, contribuenti, consumatori) si dicono preoccupati per l’impatto ambientale dei pesticidi e per il 75% hanno timori rispetto all’impatto dei pesticidi sulla salute umana, come riporta un recente sondaggio della società di analisi di mercato Ipsos.

   Lagricoltura           familiare offre        un’opportunità unica per garantire la sicurezza alimentare, migliorare i mezzi di sussistenza, gestire meglio le risorse naturali, proteggere l’ambiente e raggiungere uno sviluppo sostenibile, in particolare nelle zone rurali. Grazie alla loro saggezza e alla cura per la terra, gli agricoltori familiari sono gli agenti del cambiamento di cui abbiamo bisogno per raggiungere Fame Zero, un pianeta più equilibrato e resiliente e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.


L’agricoltura familiare sostiene sistemi alimentari diversificati che promuovono l’integrazione sostenibile tra aree urbane e rurali. Grazie a soluzioni di mercato innovative, gli abitanti delle città possono godere di alimenti sani, nutrienti e sicuri.

Aumentare l’accesso degli agricoltori familiari alle infrastrutture, alla tecnologia, alla comunicazione e alle innovazioni su misura è fondamentale per il futuro dei sistemi alimentari e può attrarre i giovani nel settore. Ciò influisce positivamente sulla mobilità rurale-urbana, in particolare per le generazioni più giovani.

I giovani sono il futuro dell’agricoltura familiare. Mantenere l’interesse per l’agricoltura come professione è vitale per la futura sicurezza alimentare e lo sviluppo agricolo. I giovani agricoltori sono il ponte tra le conoscenze tradizionali e locali e le idee innovative.

Attraverso la trasformazione dei prodotti, la generazione di servizi e infrastrutture, l’agricoltura familiare crea reali opportunità economiche non solo per gli agricoltori del territorio ma per l’intera comunità.




L’agricoltura familiare può rendere i sistemi alimentari più sostenibili. Le politiche dovrebbero aiutarli a ridurre le perdite alimentari e a gestire in modo sostenibile ed efficiente le risorse naturali.



Riconoscere le donne rurali come uguali, così come aumentare il loro accesso alla terra e ad altre risorse produttive, agli investimenti, ai prestiti, alla formazione e all’informazione, contribuiranno notevolmente allo sviluppo sostenibile.



Unendo le conoscenze tradizionali con un adeguato know-how tecnico, l’agricoltura familiare promuove sistemi alimentari più resilienti ai cambiamenti climatici.

L’agricoltura familiare offre un’opportunità unica per garantire la sicurezza alimentare, migliorare i mezzi di sussistenza, gestire meglio le risorse naturali, proteggere l’ambiente e raggiungere uno sviluppo sostenibile, in particolare nelle zone rurali.



s a p e v a t e    c h e 


Le aziende agricole a conduzione familiare producono più  

dell'80% del cibo

nel mondo

Il 90% dei pescatori

opera  su piccola scala

Le fattorie familiari occupano il

70-80% dei terreni agricoli

in tutto il mondo

Le donne detengono solo il 15%

di terreno agricolo, mentre forniscono
quasi il 50% della manodopera agricola

Più 

del 90% delle aziende agricole

sono gestiti da un individuo o una famiglia
che fa affidamento principalmente sul lavoro familiare

Ci sono più di

600 milioni di aziende agricole a conduzione familiare

nel mondo.

 

 

La rivincita delle campagne. Economie e culture dalla povertà al benessere

  Gli studiosi di scienze sociali nei secoli scorsi, con la sola esclusione dei fisiocratici, si sono dimostrati piuttosto severi nel giudicare la campagna e i suoi abitanti. Marx, ad esempio, riteneva i contadini stolidi e la campagna (quella francese) un insieme di realtà disperse e isolate tra loro al pari di un «sacco pieno di patate» (Marx). Più recentemente, i moderni approcci economici di tipo liberale, marxista o keynesiano, hanno invece considerato le aree rurali incapaci di seguire percorsi di sviluppo auto-centrato e indipendente dal settore industriale (Slee; Lowe).

 In generale però, come scrive Barberis, il ripudio delle campagne fa parte della «più intima essenza della nostra tradizione»; persino Dante nella Commedia scrive versi di disprezzo per ciò che sta fuori dalle città e per la «cultura montanina» (Barberis, 2000). D’altro canto oggi, in particolare nei paesi economicamente più avanzati ove l’agricoltura ha un peso in continua decrescita in termini di numero di addetti e di valore prodotto, si assiste al fenomeno del ritorno di importanza (per alcuni aspetti paradossale) della campagna, delle culture e dei valori che essa esprime. Il volume “La rivincita delle campagne”, realizzato in occasione dei cinquant´anni dell’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale (INSOR), offre numerosi studi a sostegno di tale argomentazione. La parte prima del volume si occupa con particolare competenza e chiarezza dell’analisi del percorso verso la parificazione, già conquistata o in atto, tra campagna e città. Dopo la cornice introduttiva nel primo capitolo, i capitoli successivi trattano le seguenti tematiche: il ripopolamento delle zone rurali; «la marcia di avvicinamento» tra campagna e città in termini di redditi, consumi e ricchezza e lo scarto, in via di esser colmato, in termini di livello di istruzione. Infine, gli ultimi capitoli della parte prima analizzano i processi di omologazione di campagna e città in merito alla religiosità, alle preferenze elettorali e ai tassi di criminalità. Il percorso verso la parità nel «mercato matrimoniale» è invece trattato nella seconda parte. La parte seconda del volume contiene interessanti saggi che indagano alcuni tra i principali fenomeni che hanno caratterizzato la campagna negli ultimi decenni. Gli argomenti sono trattati seguendo differenti approcci e non solo tramite i consueti strumenti d’indagine offerti dalla sociologia rurale o dall’economia agraria. Alcuni capitoli analizzano addirittura il rapporto tra letteratura, arti visive e campagna. Visto il vasto ventaglio di tematiche analizzate ci soffermeremo qui di seguito su alcuni dei capitoli che trattano argomenti più vicini ai nostri interessi scientifici. Il capitolo dal titolo “Verso il ritorno dei neri?”, a cura di Attilio Politi, discute di razze suine nere autoctone che in Italia sono diffuse, a differente grado di ibridazione, in numerose regioni. Tali razze sono a rischio di estinzione; i motivi sono sostanzialmente economici. Politi ci ricorda che allevare suini neri è più oneroso, rispetto ai suini rosa, di circa il 40-50%. Possiamo in questo caso aggiungere che ciò si configura come un tipico caso di fallimento del mercato che non riesce a determinare l’ottimale allocazione di beni pubblici come la biodiversità zootecnica (Sortino). Esistono per fortuna delle correzioni a tale fallimento: in questo caso la “rivincita del nero” potrebbe essere generata dall’aumento della cultura, non solo gastronomica, dei consumatori nonché dalla loro disponibilità a pagare per l’acquisto di prodotti del suino nero. In fondo, cervelli e palati più fini riconoscono i veri risultati del suino nero, che non sono economici ma, come scrive Politi, si sentono in bocca! Il capitolo dal titolo “L’autoconsumo tra passato e futuro” di Corrado Barberis, tratta invece il tema della produzione e del consumo al di fuori del sistema monetario. L’autoconsumo ha avuto, e tuttora ha, una notevole diffusione in alcuni paesi europei come la Germania e la Francia. L’Italia dal canto suo, dopo decenni di insofferenza dei suoi cittadini verso l’autoconsumo, negli ultimi anni ha visto un leggero aumento di abitanti che lo praticano. Si produce al di fuori del sistema monetario per vari motivi, ma di solito per povertà o per lusso. La povertà ad esempio di chi, oramai pensionato e possessore di un orto, preferisce “fare” anziché “comprare” (Chang Ting Fa et al.) e arrotonda il magro reddito producendo olio, vino, ortaggi o frutta per il proprio fabbisogno e per quello di amici, parenti e vicini di casa. L’autoconsumo è un lusso invece per chi ha tempo e denaro per un passatempo tra i più snob che si possano praticare, come ha indicato l’Express qualche anno fa. L’autoconsumo, ci ricorda Barberis, è spesso legato al dono. Noi aggiungiamo che anche il dono, come la cultura, corregge i fallimenti del mercato; il donare è inoltre un atto sovversivo che stravolge l’individualismo utilitarista, uno degli assunti che sta alla base della scienza economica standard (Carlini, 2009). Il volume termina con un capitolo, denominato “Notarelle”, a cura di Corrado Barberis. Questo tratta, in particolare, del «ritorno ricco di alimenti poveri» (Barberis, 2009): il latte crudo, i formaggi, il riso, il pane, gli oli di frontiera e gli oli di noce, il vino, la grappa, il sidro, le lumache, il peperoncino, le vernacce. Una campagna viva, che produce senza essere assistita, esige che i suoi diversi prodotti vengano consumati. Il recente successo di queste produzioni è forse il sintomo più evidente della rivincita delle campagne e delle loro (bio) diversità.

 


Bibliografia Barberis C. (2000): Le vie del campo. Nell’era di Internet l’agricoltura non scompare. Anzi, il manifesto, 26 marzo. Barberis C. (2009): Comunicazione personale tramite corrispondenza. Carlini F. (2009), Dieci tesi sull’economia della conoscenza, il manifesto, 20 gennaio. Chang Ting Fa M., Piccinini L. C., Taverna M. (1999): Agricoltura futuribile: primario o terziario?, "Agribusiness Paesaggio & Ambiente", 2 (1997-98), n. 4. Lowe L. (2006): Concetti e metodi nelle politiche europee di sviluppo rurale, in (a cura di A. Cavazzani et al.): “Politiche, governance e innovazione per le aree rurali”, Napoli, INEA - Edizioni Scientifiche Italiane. Marx K. (1852 [1974]): Il 18° brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori Riuniti. Slee B. (1993): Endogenous development: a concept in search of a theory, Options Mediterraneenns, Serie A (23). Sortino A. (2004): Aspetti economici della tutela delle razze zootecniche ragusane a rischio di estinzione, tesi di Laurea, Università di Catania, relatore prof. Giovanni Signorello. (°) Corrado Barberis (2009), La rivincita delle campagne. Economie e culture dalla povertà al benessere, Donzelli Editore, Roma, pp. XXI e 393 (ISBN 978-88-6036-2)

sabato 12 aprile 2025

Il germoplasma autoctono italiano.

 

Giuliana Cattarossi, Giovanni Colugnati

Colugnati&Cattarossi, Partner Progetto PER.RI.CON.E.

 

 

          Per cercare di capire quanto complesso il patrimonio vitivinicolo nativo o minore, possiamo dare uno sguardo ai Registri che elencano le varietà di vite coltivate in alcuni importanti Paesi viticoli mediterranei, come Italia, Francia, Grecia e Spagna. Tali registri indicano che i vitigni da vino ufficialmente registrati nel nostro Paese, considerando solo quelli autoctoni (dunque escludendo quelli provenienti da altre nazioni o ottenuti per incrocio), sono circa il doppio di quelli catalogati in Francia ed in Grecia e quasi il triplo di quelli riportati per la Spagna.


Se si considerano invece i vitigni autoctoni nel loro insieme, ovvero presenti sul territorio o in collezione, ma non necessariamente riconosciuti ufficialmente, questi sono circa 400 in Francia (Lacombe, 2002) e intorno ai 2000 o forse più nel nostro Paese (Schneider, o.c.), basata sul cospicuo numero di vitigni minori, rari e in via di abbandono (oltre 300) recuperati negli ultimi 15 anni nella sola Italia Nord-Occidentale.

Ci si potrebbe chiedere perché proprio l’Italia, tra i numerosi altri Paesi viticoli europei, è forse il più ricco di “ampelo-diversità”. Le ragioni sono numerose, ma tra le principali va ricordata la posizione geografica della nostra penisola che, protesa al centro del Mediterraneo, è sicuramente servita da ponte, da zona di passaggio tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest, per le diverse specie alimentari mediterranee e per le loro varietà, portate dai numerosi popoli che hanno occupato o percorso il nostro Paese.

Anche la frammentazione ecologica dell’Italia, un territorio orograficamente complesso, formato da ambienti spesso molto diversi, ha svolto un ruolo importante (Colugnati et al., 2015) nella differenziazione di forme adattate a situazioni differenti; e lo stesso si può dire per la frammentazione socio-economica e politica italiana, durata ben più a lungo che negli altri Paesi viticoli. Va ricordato ancora uno sviluppo tecnico ed economico più lento ed una ritardata affermazione dell’economia di mercato (soprattutto in certe regioni), unitamente all’avvento più tardivo dei parassiti della vite di origine neartica, che hanno invece colpito i Paesi d’Oltralpe, e soprattutto la Francia, in modo repentino e violento, determinando un’improvvisa e rapida evoluzione dell’assortimento varietale.

Quanto alla ripartizione delle superfici delle poco più di 300 varietà di vite autoctone iscritte nel Registro italiano, un centinaio di esse sono coltivate su più di 1.000 ha ciascuna, mentre ben 185 non raggiungono singolarmente i 1.000 ha di superficie e per molte di esse si sono registrate aree colturali di pochi ettari soltanto (ISTAT, Censimento Agricoltura 2000).

Si può allora affermare che l’Italia è una vera e propria “miniera a cielo aperto” di vitigni autoctoni, ma la maggior parte di essi, di modestissima importanza colturale, sono in generale assai poco conosciuti.

Uno sforzo deve dunque essere rivolto alla conoscenza dei vitigni autoctoni italiani, fra cui i minori, i locali, sono certamente quelli su cui le informazioni sono più limitate e frammentarie, anche se molte sono le iniziative in atto (il Progetto PER.RI.CON.E: ne è testimonianza).

In un progetto rivolto all’enologia varietale, però, si deve adottare un approccio del tutto originale ed innovativo: si parte dal fatto che ogni territorio ha i suoi vitigni autoctoni (o tradizionali), ed un’azione che porti alla loro riuscita valorizzazione comporta la conoscenza approfondita di quel vitigno (o di quei vitigni) e la ricerca delle tecniche colturali ed enologiche che possano esaltarne le componenti varietali, ottenendone vini che sono, in definitiva, espressione di un territorio.

I fattori genetici, ovvero quelli intrinseci, propri di un vitigno, sono tra gli aspetti che incidono più fortemente sulla composizione delle uve e vanno studiati in relazione alla componente ambientale (adattabilità o reazione all’ambiente), colturale (tecniche di allevamento) e fisiologica (soprattutto riguardante il processo di maturazione).

Gli studi di genomica funzionale in vite, per la verità, sono ancora agli albori, e proprio per questo rivolti a poche cultivar modello (tra cui si hanno normalmente vitigni dello standard internazionale) oppure a mutanti, di solito poco o per nulla utilizzati commercialmente.

I vitigni autoctoni, almeno per ora, sono ancora poco studiati sotto questo profilo, anche se si prevede che le ricerche siano presto estese ad esplorare l’ampia diversità genetica offerta dalle numerose cultivar di vite esistenti, e dunque anche molti vitigni minori.

Aspetti genetici dei vitigni di territorio.

 

Giuliana Cattarossi, Giovanni Colugnati

Colugnati&Cattarossi, Partner Progetto PER.RI.CON.E.

 

 

La specie Vitis vinifera L. possiede un’elevata variabilità varietale, tanto che si stima che esistano tra i 10.000 ed i 20.000 vitigni nel mondo (Ambrosi et al., 1997).

Alcuni di questi sono stati selezionati per vegetare al meglio nelle condizioni climatiche e pedologiche specifiche di determinate regioni, dove sono coltivati con appropriate ed originali tecniche agricole sviluppate in accordo alle possibilità offerte dal luogo.

Questi vitigni sono definiti autoctoni o tradizionali di un territorio. La loro lunga storia agricola, in alcuni casi di secoli, li rende ricchi di fascino e potenzialità produttive, nonché custodi di un patrimonio culturale e storico, al quale senz’altro contribuiscono l’ebbrezza e la mitologia del vino.

La diversità genetica e le numerose potenzialità agricole offerte dai vitigni autoctoni sono un tesoro prezioso per la produzione vinicola di qualsiasi epoca, che necessita di essere preservato. La perdita di numerosi vitigni nel corso della storia umana, se da una parte è da considerarsi “naturale”, dall’altra non può non destare preoccupazione: l’erosione genetica, infatti, riduce le possibilità di sviluppo dell’agricoltura e delle conoscenze scientifiche del settore.

La crisi fillosserica è stata senz’altro la maggiore causa documentata di erosione genetica del germoplasma viticolo pressoché universale. L’opera di ricostituzione degli impianti ha eroso invece in particolar modo il germoplasma autoctono e oggi la diversità varietale esistente è messa in pericolo dall’omologazione della produzione vitivinicola a livello mondiale.

E’ probabilmente la necessità umana di semplificazione della realtà, istintiva e rafforzata dalla società contemporanea, che spinge fortemente gli operatori ed i professionisti del settore verso l’omologazione delle tecniche e dei prodotti.

Inoltre l’enfatizzazione delle tecniche enologiche e l’intolleranza verso vitigni e pratiche tecnologiche tradizionali, che non permettono di ottenere prodotti dalle caratteristiche “contemporanee” gradite alla maggioranza dei consumatori, stanno escludendo numerosi vitigni autoctoni dalla produzione. Un’altra recente causa di estinzione di vitigni è dovuta anche alla decisa e forte identificazione produttiva e commerciale di un vitigno con un vino, che conduce alla progressiva scomparsa dei vitigni complementari o alternativi di molte Denominazioni. Le conseguenze possono essere drastiche, in considerazione anche del significativo progresso raggiunto nel campo degli studi genetici. Il germoplasma di una specie è infatti la risorsa genetica utilizzabile che garantisce la sopravvivenza ed il miglioramento produttivo della specie stessa.

Maggiore è la variabilità genetica, maggiori sono pertanto le potenzialità della specie.

Un altro elemento di fondamentale importanza su cui riflettere è la valorizzazione del germoplasma autoctono. Per esempio, all’epoca della crisi fillosserica alcuni paesi non disponevano di un’aggiornata e completa descrizione dei vitigni in coltivazione. Questa carenza ha spesso impedito di operare al meglio le scelte di reimpianto e di guidare la produzione verso obiettivi tecnicamente soddisfacenti.

Le risorse genetiche autoctone, proprie di ogni paese, regione o zona, sono pertanto, per quanto possibile, un patrimonio da studiare e preservare come espressione di un territorio, nel suo insieme di valori artistici, paesaggistici e culturali; i vitigni nativi sono i custodi, ma nel contempo i narratori, il veicolo di un patrimonio culturale locale che si presenta originale, unico, autentico (Schneider, 2006). L’interesse per i vitigni autoctoni, perfino per i meno conosciuti, è ormai tangibile, e si pone pertanto il problema di saper utilizzare, imparando a conoscere e facendolo proprio, un patrimonio biologico che è superfluo definire complesso.

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